domenica 6 marzo 2011

Senza la strada

Ad un certo punto abbiamo deciso di camminare. (MAPPA) Non è che la strada fosse molta. Dalla cartina erano 4km. Il tempo c’era, le gambe pure. Papete è una città strana, piena di vita allegra di gente tranquilla. Allegra di gente accogliente. L’unico posto che abbia visto, dove veramente puoi essere quello che sei, senza doverti colorare i capelli o cercare di andare contro regole non imposte.
Rue du General de Gaulle ha un nome che dovrebbe metterti tranquillità, ma quando sei sulla strada delle volte ti sorge un dubbio. Ecco io ero in quella fase dove un punto interrogativo mi rimbalzava sulla testa. Mi guardavo intorno in quel quartiere svuotato dall’ora di cena. Fino a trovare tre ragazzi: “Parleranno inglese, sembrano studenti universitari.” Beh, parlare inglese è troppo, ma questa lingua permette di comunicare come tra indiani. “Noi non capire bene”. Un discorso un po’ complicato tra due italiani spersi e tre polinesiani, che potresti aver tranquillamente incontrato a “La Duree” di Parigi mangiando pasticcini. Ma alla fine il concetto è chiaro: “Autobus per andare all’aeroporto”. I tre si guardano fra loro e si guardano intorno come per dire: “Non ci sono le fermate?” Continuano a parlottare fra loro, fino a quando esce la saggezza femminile. “Dagli un passaggio, ci vogliono cinque minuti”. Si salutano fra loro, la ragazza e il ragazzo più alto ci salutano. Il terzo ci fa segno di seguirli. Il concetto che ci avrebbe dato un passaggio in macchina era più una nostra supposizione che una certezza di avere compreso.
Un Jeep verde diventerà il nostro taxi e un ragazzo pieno di progetti il nostro tassista. Quando viaggio mi piace lasciare che le cose mi accadano senza aver progettato ogni particolare. Quando viaggio mi piace poter parlare con un ragazzo di 20 anni che mi racconta, nel suo fantasioso inglese, del suo arruolarsi in polizia. Dei cinque anni che deve fare a Parigi per il corso. Per il suo voler essere un poliziotto a casa sua. Con quel Grand Tour Europeo che non può non fargli gola.

venerdì 25 febbraio 2011

Il fortino di Lorenzo

Un fortino deve essere fatto con cuscini e lenzuola. Lenzuola colorate. Lenzuola azzurre. Un cuscino dove poggiare il sedere. Un fortino deve avere lo spazio per stare sdraiati. In un fortino non puoi stare in piedi, perché sbatteresti la testa. Un fortino deve avere oblò per guardare il nemico. Oblò dove papà può infilare una mano per fare il solletico.
Un fortino deve tenere lontano chi non vuoi e tenere vicino chi vuoi. Deve essere morbido e deve essere quadrato. Deve essere un parallelepipedo dove crescere. Un fortino sembra trasparente e senza torri, ma dentro è caldo e sicuro. Un fortino emette dei suoni, non la musica di una sala da ballo. Un fortino emette piccoli bip della strumentazione che osserva. Allarmi che avvertono un’intrusione. E a volte il pianto lontano di un bimbo che cresce.
Un fortino ha unico re. Dentro il fortino vige una sola legge. Un fortino non può esserci senza vicino un altro fortino. E un altro fortino. Ancora un altro fortino. Rosa. Verde. Rosso. Giallo. Un fortino ora è amico, ora è nemico.
Un fortino brilla alla luce del sole e sonnecchia nelle note. In un fortino si riposa nella pace e si combatte nelle avversità. Un fortino è in silenzio. Un fortino all’improvviso esulta in un grido di gioia. In un fortino si scoprono le mani, i piedi, la testa.
In un fortino devi stare in mutande. In un fortino la tua armatura è immaginaria. In un fortino non ti aspetti che gli altri capiscano dove sono in contrafforti e dove le feritoie. In un fortino sei pronto a combattere anche se sembra che dormi.
In un fortino mamma e papà ti guardano un po’ preoccupati. In un fortino cominci la vita!